Alessandro Rivola | L’hardware ritrovato

Sabato 8 Ottobre 2016 alle ore 18.00, si inaugura presso la Galleria Stefano Forni di Bologna in Piazza Cavour 2, L’hardware ritrovato, una mostra personale dell’artista fotografo bolognese Alessandro Rivola.

La mostra vedrà esposte una quindicina di fotografie dell’artista fotografo bolognese Alessandro Rivola che ritraggono alcuni oggetti ideati e realizzati da Guglielmo Marconi per le sue sperimentazioni. Come dice Claudio Marra nel testo in catalogo, Alessandro Rivola ci propone “una sorta di archeologia elettronica, un album di famiglia di apparati vintage da sfogliare con stupore, per scoprire che dietro l’anima c’è anche un corpo, o comunque c’era.”

In galleria oltre alle fotografie, sarà allestito con la collaborazione della Fondazione G. Marconi un suggestivo spazio espositivo-sensoriale con la presenza di alcuni oggetti e strumenti messi a disposizione del Museo Marconi che ci consentiranno di percepire la genialità di Guglielmo Marconi. Saranno esposte alcune repliche funzionanti di apparati dell’epoca (fine 800 - inizio 900) insieme ad un apparato interattivo che richiama lo strumento con cui nei primi anni del Novecento si sono salvate tante vite umane coinvolte in drammatici incidenti marittimi. I visitatori potranno “giocare” azionando il detector magnetico Marconi che, in questa versione moderna, permetterà di ascoltare una trasmissione radiofonica in diretta.

In collaborazione con la Fondazione Guglielmo Marconi, la Galleria Stefano Forni organizza due giornate speciali con visita guidata e aperitivo al Museo Marconi (Via Celestini 1, Pontecchio Marconi)

VISITA GUIDATA E APERITIVO AL MUSEO MARCONI

Un’esperienza magica e affascinante per conoscere il genio di Guglielmo Marconi.

Venerdi’ 14 Ottobre - ore 18.30

Domenica 23 Ottobre - ore 11.00

Il prezzo è di 10€

gratuito per i minorenni.

E’ obbligatoria la prenotazione

Per informazioni e prenotazioni  inviare una mail o chiamare i numeri sottoelencati:

Galleria Stefano Forni

arte@galleriastefanoforni.com  - tel 051.225679

Museo Marconi

info@fgm.it - tel 051.846121

Viviamo tempi di tecnologia incorporea, talmente miniaturizzata da risultare quasi invisibile. L’hardware si sta progressivamente riducendo, lasciando sempre più spazio alla parte soft, a processi logici sempre più complessi e smaterializzati. Del resto, per sua natura, l’elettronica non poteva che andare in questa direzione. Figlia, insieme all’elettrotecnica, della galassia elettrica, ne ha interpretato l’anima più leggera, quella delegata alla gestione di segnali e informazioni, lasciando alla sorella più anziana (fra le due corrono almeno settanta o ottanta anni di differenza) un legame ancora evidente e marcato con l’epoca delle macchine e degli apparati pesanti.

C’è stato però un momento, nei suoi primi anni di sviluppo, ad inizio Novecento, nel quale l’elettronica era ancora vestita, aveva un corpo sontuoso e appariscente, con curve mozzafiato che certo non passavano inosservate. Era forse un po’ sovrappeso, e così si mise presto a dieta stretta, dando avvio a quell’inarrestabile processo dimagrante che l’avrebbe portata all’attuale condizione di esasperata anoressia, per altro sempre più strabiliante come funzioni e applicazioni. Nessun rimpianto dunque per i tempi andati, nessuna concessione nostalgica al fascino sempre suadente del passato, considerato ciò che l’elettronica oggi è in grado di offrirci. La moda delle curve bollenti non tornerà più in voga, se non magari come pratica un po’ perversa per raffinati amatori, eroticamente legati ad apparati hi-fi che ancora esibiscono sfavillanti valvole termoioniche. Per la grande massa, per noi tutti, il corpo elettronico si è ormai dissolto, trasformato in simulacro invisibile che adoriamo in assenza.

Bene dunque ha fatto Alessandro Rivola ad allestire questa sorta di archeologia elettronica, questo album di famiglia di apparati vintage da sfogliare con stupore, per scoprire che dietro l’anima c’è anche un corpo, o comunque c’era. Stilisticamente parlando, la strada scelta da Alessandro è stata perfetta. Come prima cosa ha fatto il vuoto attorno agli oggetti, li ha resi letteralmente assoluti, cioè sciolti da ogni legame, liberi di essere solo se stessi. Annullato il sia pur minimo sospetto di funzione, a trionfare è la componente estetica, intesa però non solo nel suo significato più diffuso e un po’ vago di bellezza, ma anche in quello meno conosciuto, ma etimologicamente più corretto, di sensibilità, di sentire attraverso i sensi, scoprendo materiali inusuali e ormai scomparsi, superfici levigate e preziose o lo stesso vuoto asettico e rarefatto di ampolle trasparenti, ove si intrecciano misteriosi ed eleganti filamenti effettivamente carichi di tensione. Così isolati e monumentalizzati questi oggetti si trasformano in sorprendenti sculture che nessuna mano avrebbe potuto ragionevolmente inventare. Hanno forme enigmatiche non direttamente riconducibili a nessuna funzione, forme ibride che mescolano vaghi richiami naturali fitomorfi con impreviste soluzioni artificiali che percepiamo provenire da altri mondi.

In particolare poi, i globi sinuosi ed allusivi delle valvole, non possono non richiamare alla mente una delle opere più straordinarie e provocanti dell’arte contemporanea, per altro loro perfetta coetanea, quell’elegante ampolla in vetro nella quale Duchamp, alla fine degli anni Dieci, spavaldo e provocatorio, aveva rinchiuso l’Aria di Parigi, sancendo in modo definitivo il primato della svolta concettuale. Del resto in quel momento, come suggerito dall’affascinante sfilata allestita da Alessandro, tutto si stava effettivamente spostando nell’aria, tutto si stava trasferendo sulle onde leggere e impalpabili dell’elettronica. Duchamp l’aveva capito o forse bisognerebbe più giustamente dire che l’aveva captato, perché la sua ampolla, all’apparenza vuota, racchiudeva in effetti la stessa forza comunicativa e lo stesso carico concettuale, pronti a fuoriuscire dai globi vitrei delle valvole termoioniche.

Oltre all’isolamento straniante dell’oggetto, l’altra fondamentale scelta stilistica operata da Alessandro è stata quella di una ripresa frontale, diretta, oggettiva, dura e tagliente come una lama di rasoio, ma anche (o forse proprio per questo) pienamente rispettosa del proprio oggetto. È lo sguardo al tempo stesso partecipe e distaccato dell’archeologo (come del resto ci hanno insegnato i Becher con le loro imponenti schedature di archeologia industriale) che diligentemente allinea i vari reperti davanti ai propri occhi, in modo rigoroso, ma pure incantato. Questa oggettività asettica di ripresa ha però forse anche un’altra spiegazione che ci porta ad evidenziare come alla fine Alessandro abbia proceduto omeopaticamente, mutuando, a livello linguistico, lo stesso clima, la stessa aura, dei suoi soggetti: rarefatto per rarefatto, concettuale per concettuale, scientifico per scientifico. Evitando inutili funambolismi di ripresa si è perfettamente sovrapposto al senso di ciò che gli stava davanti, capendo che il modo migliore per raccontare le cose è confondersi con esse, assorbirne lo stile per poi tradurlo in immagine, per trasformarlo in immagine.

Claudio Marra

opere/works

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